giovedì 20 ottobre 2016

"I FIORI DELL'IGNOTO" di Pietro Trevisan: 225° pagina.


Se fossero stati dei buontemponi, si sarebbero notate se non delle orme, almeno le tracce che la neve era stata smossa per cancellare ulteriori orme umane.

Ma la neve era immacolata, assolutamente priva di segni di qualsiasi tipo, intatta come quando aveva smesso di cadere.

Certo, c’era il trucco di ripercorrere all’indietro le orme e poi nascondersi da qualche parte oltre il bordo della strada, ma ormai nessuno pensava più a una causa umana.

Qualcuno cominciò a mormorare di incantesimi delle Fate per rovinare la festa alla gente del villaggio.

«E adesso che facciamo?» chiese uno dei gendarmi «Cosa dichiareremo? Che abbiamo visto le tracce di un mostro volante che non siamo riusciti a vedere?».

Il capo dei gendarmi gli disse che era troppo presto per dichiarare qualsiasi cosa. La cosa migliore era continuare a perlustrare la zona.

«Io, se permettete, vorrei dare un’occhiata all’eremo qui vicino» propose Velthur.

«E perché, dottore?»

«Diciamo che dato che l’eremita vive nel bosco di Monte Leccio, e i boschi sono in genere il posto migliore dove delle bestie possono nascondersi, forse lui ha visto qualcosa. Fattorie qua non ce ne sono, quindi l’unico probabile testimone di qualcosa è lui. E poi voglio anche essere sicuro che non gli sia successo qualcosa, se davvero qua nei dintorni può essere passato un mostro volante a sei zampe».

Il capo dei gendarmi fu d’accordo, e lasciò che il dottore si avviasse con Menkhu, uno dei gendarmi e altri due volontari.

Salirono lungo il sentiero di Monte Leccio con parecchia difficoltà. Lì lo strato di neve sembrava essere più profondo. Poi, parecchio prima che arrivassero al sentiero più piccolo che portava all’eremo, Menkhu notò qualcosa nel bosco che mandava un riflesso diverso da quello della neve sugli alberi. Spiccava proprio perché attorno ad esso stranamente non c’era neve.

Era una specie di filo dorato che pendeva da un albero all’altro nel fitto del bosco di sempreverdi. I tronchi neri e la brillante luce del mattino invernale lo facevano risaltare come un ornamento del grande albero del Tinsi Garpen Silal.

Il filo si stendeva in direzione della cima del monte, e sembrava perdersi nel bosco, ma presto il gruppo di vigilanti si rese conto che non era il solo.

«Sembrano delle decorazioni. Sta a vedere che quel matto dell’eremita ha decorato tutto il bosco con fili dorati» disse il gendarme.

«Non credo che l’abbia fatto solo per bellezza» commentò Menkhu.

«Menkhu, tu che sei più veloce di tutti, corri per primo a vedere di cosa si tratta! Credo che sia un’altra delle alchimie di Aralar, anche se non ho la minima idea di cosa possa essere».

Menkhu ubbidì prontamente e ad ampi balzi raggiunse uno degli alberi da cui pendeva uno dei fili dorati, mentre gli altri quattro gli arrancavano dietro.

Quando raggiunse l’albero, il Sileno cercò di tirare uno dei fili che pendevano ad arco come ragnatele, ma si accorse di non poterlo spezzare.

«Dottore, è una cosa stranissima. Non ho mai visto una sostanza del genere. Sembra…. resina elastica, ma resistente come un nervo!».

Menkhu rigirava il filo nei polpastrelli, con una smorfia di perplessità sul volto, che quasi gli faceva digrignare i grossi denti gialli.

Quando anche Velthur poté averlo tra le mani, poté constatare che Menkhu aveva ragione.

Il filo non era d’oro come era sembrato all’inizio, ma ambrato e trasparente, grosso quasi come un dito, e sembrava resina trasformata in gomma. E probabilmente lo era, perché sfregandone la superficie, avvertì un profumo di resina di pino misto stranamente a miele.

Provò a tirare il filo con entrambe le mani da un lato e dall’altro per vedere se si spezzava, ma invano.

Chiese a Menkhu di fare lo stesso con tutte le sue forze, per vedere se cedeva. Nemmeno lui ci riuscì. Era forte come un nervo di bue.
«Sembra quella sostanza che a volte i nostri marinai importano d

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