lunedì 24 ottobre 2016

"I FIORI DELL'IGNOTO" di Pietro Trevisan: 229° pagina.


«Che cos’è? Non me lo vuoi dire? E perché resti là? Cos’ha di così spaventoso?».

«Io…. vorrei che me lo dicessi tu che cos’è, perché io non ne sono sicuro. Ma di una cosa sono sicuro: è opera di stregoneria, l’opera di un demone maligno!».

«Ho capito…».

Velthur si avvicinò alla cosa che giaceva sulla neve, e che ai suoi occhi sembrava solo un mucchio di stracci sporchi, di un colore biancastro-beige.

Solo quando si fu avvicinato, poté capire meglio di cosa si trattava, e che pure continuava a non capire.

C’era come una massa di lunghi capelli su un lato della cosa, o qualcosa che assomigliava a lunghi capelli crespi e ondulati, color sale e pepe. Quando fu sopra all’oggetto, scoprì che ciò che stava osservando era un ammasso di pelle umana, a cui era attaccata una lunga barba.

La lunga barba brizzolata di Aralar.

Incerto, tremante, prese con le dita della mano sinistra un lembo della pelle vicino alla barba e provò a distenderla in tutta la sua lunghezza. Gli apparve in pochi istanti quello che non aveva mai visto in tutta la sua carriera di medico, e che ufficialmente non era possibile neanche al più esperto sezionatore di corpi umani.

Era effettivamente la pelle di Aralar, ma completamente, assurdamente integra, perfettamente staccata dalla carne, e priva di una sola goccia di sangue, sia all’esterno che all’interno. Anche sulla neve intorno e sotto non si vedeva una sola goccia di sangue. Ed era ancora calda ed elastica, come appena tolta dal corpo.

Si vedevano i fori degli occhi, con le palpebre perfettamente integre e persino tutte le ciglia, e del pari si notavano chiaramente le unghie perfettamente attaccate alla pelle delle dita e dei piedi. Le mani sembravano dei perfetti guanti vuoti.

Non c’era nessun taglio in nessuna parte dell’epidermide, nessuna incisione, assolutamente niente. Era come se tutto l’interno del suo corpo fosse stata sfilato semplicemente fuori dagli orifizi, senza alcuna perdita di sangue, e senza lasciare alcuna traccia al suo interno. E tutto lasciando anche unghie e peli perfettamente attaccati.

In pratica, era qualcosa di orribilmente impossibile.

L’unica cosa che poté dire Velthur guardando Menkhu che continuava a rimanere a debita distanza fu: «Non è possibile….».

«É… è Aralar, vero? L’hanno scuoiato vivo? Ma come hanno fatto a non lasciare il sangue? A non lasciare tagli? Come l’hanno tirato fuori dalla sua pelle?».

«Menkhu, non lo so…. quello che vedo supera le capacità di qualsiasi Uomo. Ma chi ha fatto questo deve essere ancora nei paraggi, perché la pelle è ancora calda. E le urla che ho sentito prima…. Voi avete visto qualcuno? Dove eravate quando si sono sentite quelle urla laceranti nel bosco? Sicuramente era lui mentre veniva scuoiato».

«No, Velthur! No! Le urla le abbiamo sentite dopo aver trovato la sua pelle, non prima! Noi eravamo qui, che stavamo cercando di capire cosa è successo! È stato quando abbiamo capito cosa avevamo di fronte, e poi abbiamo sentito le urla, che gli altri sono impazziti di terrore e sono fuggiti! Non so neanche perché non sono fuggito anche io. Sapevo che eri da solo nel bosco, e ho pensato solo a ritrovarti per farti vedere questo e…. quell’altra cosa più in là».

Indicò un punto nel bosco, alla sua sinistra, dove c’era una sorta di piccola infossatura, e nella quale apparentemente c’era solo la neve.

Poi, guardando meglio, Velthur vide che c’era qualcos’altro oltre ad essa, anch’esso bianco, ma di una tinta diversa. Non impiegò molto a riconoscere un teschio umano, e numerose ossa, riunite in uno scheletro perfettamente composto e disteso sulla neve.
Si avvicinò e notò che doveva appartenere anche quello ad Aralar. Guardando la dentatura del teschio, riconobbe un dente d’avorio che gli aveva notato già parecchio tempo prima, e inoltre su una delle ossa della gamba destra c’era un segno, una sorta di incisione netta e dritta. Una volta Aralar gli aveva detto che durante uno dei suoi viaggi nei Mari del Sud si era beccato un colpo di lancia da un selvaggio in un combattimento su di un’isola selvaggia, che era arrivata fino

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