«Che cos’è? Non me lo vuoi dire? E perché resti là? Cos’ha
di così spaventoso?».
«Io…. vorrei che me lo dicessi tu che cos’è, perché io non
ne sono sicuro. Ma di una cosa sono sicuro: è opera di stregoneria, l’opera di
un demone maligno!».
«Ho capito…».
Velthur si avvicinò alla cosa che giaceva sulla neve, e che
ai suoi occhi sembrava solo un mucchio di stracci sporchi, di un colore
biancastro-beige.
Solo quando si fu avvicinato, poté capire meglio di cosa si
trattava, e che pure continuava a non capire.
C’era come una massa di lunghi capelli su un lato della
cosa, o qualcosa che assomigliava a lunghi capelli crespi e ondulati, color
sale e pepe. Quando fu sopra all’oggetto, scoprì che ciò che stava osservando
era un ammasso di pelle umana, a cui era attaccata una lunga barba.
La lunga barba brizzolata di Aralar.
Incerto, tremante, prese con le dita della mano sinistra un
lembo della pelle vicino alla barba e provò a distenderla in tutta la sua
lunghezza. Gli apparve in pochi istanti quello che non aveva mai visto in tutta
la sua carriera di medico, e che ufficialmente non era possibile neanche al più
esperto sezionatore di corpi umani.
Era effettivamente la pelle di Aralar, ma completamente,
assurdamente integra, perfettamente staccata dalla carne, e priva di una sola
goccia di sangue, sia all’esterno che all’interno. Anche sulla neve intorno e
sotto non si vedeva una sola goccia di sangue. Ed era ancora calda ed elastica,
come appena tolta dal corpo.
Si vedevano i fori degli occhi, con le palpebre
perfettamente integre e persino tutte le ciglia, e del pari si notavano
chiaramente le unghie perfettamente attaccate alla pelle delle dita e dei
piedi. Le mani sembravano dei perfetti guanti vuoti.
Non c’era nessun taglio in nessuna parte dell’epidermide,
nessuna incisione, assolutamente niente. Era come se tutto l’interno del suo
corpo fosse stata sfilato semplicemente fuori dagli orifizi, senza alcuna
perdita di sangue, e senza lasciare alcuna traccia al suo interno. E tutto
lasciando anche unghie e peli perfettamente attaccati.
In pratica, era qualcosa di orribilmente impossibile.
L’unica cosa che poté dire Velthur guardando Menkhu che
continuava a rimanere a debita distanza fu: «Non è possibile….».
«É… è Aralar, vero? L’hanno scuoiato vivo? Ma come hanno
fatto a non lasciare il sangue? A non lasciare tagli? Come l’hanno tirato fuori
dalla sua pelle?».
«Menkhu, non lo so…. quello che vedo supera le capacità di
qualsiasi Uomo. Ma chi ha fatto questo deve essere ancora nei paraggi, perché
la pelle è ancora calda. E le urla che ho sentito prima…. Voi avete visto
qualcuno? Dove eravate quando si sono sentite quelle urla laceranti nel bosco?
Sicuramente era lui mentre veniva scuoiato».
«No, Velthur! No! Le urla le abbiamo sentite dopo aver trovato la sua pelle, non
prima! Noi eravamo qui, che stavamo cercando di capire cosa è successo! È stato
quando abbiamo capito cosa avevamo di fronte, e poi abbiamo sentito le urla,
che gli altri sono impazziti di terrore e sono fuggiti! Non so neanche perché
non sono fuggito anche io. Sapevo che eri da solo nel bosco, e ho pensato solo
a ritrovarti per farti vedere questo e…. quell’altra cosa più in là».
Indicò un punto nel bosco, alla sua sinistra, dove c’era una
sorta di piccola infossatura, e nella quale apparentemente c’era solo la neve.
Poi, guardando meglio, Velthur vide che c’era qualcos’altro
oltre ad essa, anch’esso bianco, ma di una tinta diversa. Non impiegò molto a
riconoscere un teschio umano, e numerose ossa, riunite in uno scheletro
perfettamente composto e disteso sulla neve.
Si avvicinò e notò che doveva appartenere anche quello ad Aralar.
Guardando la dentatura del teschio, riconobbe un dente d’avorio che gli aveva
notato già parecchio tempo prima, e inoltre su una delle ossa della gamba
destra c’era un segno, una sorta di incisione netta e dritta. Una volta Aralar
gli aveva detto che durante uno dei suoi viaggi nei Mari del Sud si era beccato
un colpo di lancia da un selvaggio in un combattimento su di un’isola
selvaggia, che era arrivata fino
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