Questa tradizione era molto meno antica di quella del grande
falò del Tinsi Kerris, ed era di provenienza straniera. Erano stati gli
invasori Teudanna, adoratori di alberi, che avevano portato quell’usanza molti
secoli prima, e alla fine era diventata ancora più importante di quella dei
grandi falò estivi, perché senz’altro più spettacolare e tra l’altro era una
maglifica idea per rallegrare la tristezza dell’inverno.
Velthur, vedendo che allestivano gli ornamenti del grande
abete nel piccolo parco presso il tempio di Fuflun, Dio degli Alberi e delle
Viti, pensò che forse originariamente, per i barbari popoli nordici, l’albero
del solstizio d’inverno doveva aver simboleggiato l’Albero Cosmico di cui
parlava il libro maledetto. Un altro indizio che non aveva colto prima. Strano
come le cose più normali, più vicine al mondo di tutti i giorni, rivelino poi
aspetti che rimandano a misteri creduti essere lontani e ad enigmi creduti
chiusi con sette sigilli.
Su ogni porta c’era una corona di vischio o di rami di pino,
talvolta anch’essi ornati di frutti e fiori di legno dipinto, per simboleggiare il cerchio della vita che
ricominciava a preparare la rinascita della Natura.
Velthur avrebbe voluto sentirsi partecipe dell’aria di festa
che si sentiva nell’aria, che usciva dalle case quando le porte si aprivano e
si sentivano gli odori dei dolci che venivano preparati, il sentore di fichi
secchi, di miele, di castagne, di noci e di nocciole, di acquavite e frutta
sotto spirito, di cannella, di zenzero e altre spezie.
Ma ormai per lui la venuta della festa era divenuta l’attesa
di una condanna, il simbolo di una tragedia annunciata dalla quale non poteva
sfuggire. E quel che era peggio, non poteva confidare la cosa a nessuno.
Menkhu, pur condividendo i timori di Velthur, riusciva ad
essere più spensierato, riusciva a godersi quell’attesa della festa, la prima
festa di Tinsi Garepanusil della sua vita in mezzo agli Uomini.
Avendo vissuto sempre con gli altri Sileni nel bosco, non
immaginava neanche che potesse esistere una festa del genere. Infatti i Sileni
cadevano in letargo alla fine di ottobre e si risvegliavano in genere a metà
febbraio o addirittura all’inizio di marzo, a seconda di quanto freddo fosse
stato l’inverno. Solo allora facevano festa, la Festa del Risveglio, in cui
con canti e danze si sgranchivano, inneggiando al loro Dio, il Capro Nero, il
Gran Dio Cornuto delle foreste, della primavera e dell’ebbrezza del vino, che
gli Uomini chiamavano Fuflun.
Menkhu si era rifiutato di cadere in letargo, anche se
passava ormai quasi tutto il giorno dormendo in casa di Velthur. Ma la notte si
risvegliava e vagava nelle campagne e nei boschi avvolto nel suo grigio
mantello di lana e col suo largo cappellaccio grigio da pastore e armato solo
del suo bastone inciso, alla ricerca dei segni dell’Ignoto.
I contadini lo vedevano dalle loro finestre come una figura
nera nelle notti innevate, e quando quelli che non lo conoscevano lo
incontravano di sera nelle stradine illuminate dalle lampade perenni o lungo i
sentieri di campagna, rimanevano intimoriti dalla sua grande figura dal pelo
rosso, e stringevano le croci ansate al collo, per ottenere la protezione di
Sil.
Dopo quell’inverno, Menkhu sarebbe divenuto una leggenda,
quella del Rosso Vegliante che vaga nella notte con i suoi occhi di brace, alla
ricerca di malvagi da punire. Poi le vecchie matriarche avrebbero pensato bene
di renderlo uno spauracchio per i bambini, quello del grande Sileno Rosso che
in occasione del Tinsi Garepanusil viene a portare regali per i bambini buoni e
punire i bambini cattivi, trasformandoli in corvi.
Ma alla festa del Giorno del Sole Vittorioso, il Sileno
Rosso voleva rimanere ben sveglio e partecipare anche lui ai festeggiamenti con
chi glielo permetteva.
La neve scese copiosa, , nei giorni prima della festa del
passaggio del solstizio, più di molti altri inverni precedenti, fin quasi ad
arrivare alle finestre delle case, e il fiume si ghiacciò completamente. Se per
caso ci fosse stato ancora qualche Saguseo nelle sue acque, sicuramente sarebbe
morto di freddo. I Sagusei, si sa, preferiscono i climi caldi.
La neve era considerata di buon augurio in occasione del
solstizio d’inverno, come dimostrava il proverbio: sotto la neve pane, sotto la pioggia fame.
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