Velthur si bloccò, meditando di passare per il bosco, per
evitare la bestia. Certo, se per caso c’erano anche i suoi compagni, allora aveva
poche probabilità di fuggire.
Cominciò ad arretrare lentamente. La gatta rimase immobile a
guardarlo con i suoi grandi occhi verdazzurri, il cui colore risaltava
enormemente perché le pupille, per la luce del mattino, erano strettissime.
Erano come due dischi di turchese, bellissimi e ammalianti. Quasi ipnotici.
Poi la gatta miagolò. Un miagolìo acuto, fortissimo,
strepitante.
Non era un verso di rabbia o di minaccia, sembrava piuttosto
un urlo di richiesta di aiuto, un pianto di disperazione. E infatti proseguì,
un miagolìo dopo l’altro, uno più angoscioso dell’altro.
Quei miagolìi non fecero che spaventare ulteriormente
Velthur, i cui nervi, se non avevano ceduto prima, era solo per un miracolo.
Giusto quello che gli serviva per crollare. Cominciò a urlare anche lui contro
la gatta.
«Il tuo padrone è morto, e io non posso fare niente per te.
Non è stata colpa mia, lo capisci? Ho dovuto farlo, o avrebbe scatenato su di
noi le forze che hanno inghiottito lui. Non è stata colpa mia, lo capisci?».
Ma la gatta continuava a urlare, disperatamente. Lo guardava
con i suoi occhi brillanti, e lo chiamava, ininterrottamente.
«Vattene via, maledetta. Lasciami andare, torna nel tuo
regno, torna sulle montagne con i tuoi simili, non c’è più niente per voi
qui!».
E continuava a indietreggiare, e a quel punto la gatta
cominciò ad avvicinarsi a lui, ma non lo raggiunse.
Si fermò nella neve, sempre sul ciglio del sentiero, e
continuando a miagolare disperatamente, cominciò a scavare nella neve, come se
cercasse qualcosa, come un cane scava la terra per trovare un cadavere.
E poi lo tirò fuori. Un giglio rosso, che chissà come era
spuntato sotto la neve, proprio all’inizio dell’inverno. Dopo averlo
dissepolto, lei guardò di nuovo il dottore, continuando a chiamarlo.
Solo allora Velthur capì cosa cercava di dirgli Ashtair.
Non era finita. Aralar era morto, ma i Fiori dell’Ignoto no,
continuavano a vivere, a crescere, persino sotto la neve. E l’Ignoto sarebbe
tornato.
Ashtair continuava a urlare, e urlare, e allora avvenne quella
che forse era l’ultima visione terrificante. I suoi occhi cambiarono colore,
divennero neri. Neri come quelli delle Fate, e le piccole pupille da nere
divennero luminose, ma non del bagliore dorato degli occhi delle Fate, bensì di
un intensa luce verde-azzurra, come invece lo erano prima le sue iridi. Le sue
pupille mandarono un bagliore sfolgorante, come se fossero due stelle, di un
fulgore che quasi ipnotizzò il dottore, il quale finalmente si decise a fuggire
attraverso il bosco urlando, con i miagolii di Ashtair che continuavano
imperterriti, disperati.
Quel pianto miagolii senza fine, Velthur non avrebbe più
potuto dimentic dimenticarlo per il resto della sua vita vissuto, come una
perenne accusa per l’atto che aveva inconsapevolmente commesso e che l’aveva
messo di fronte a un orrore che superava ogni sua immaginazione.
Per sempre.
CAP. XX: IL BENEVOLO OBLIO
A parte lo strano e inquietante caso delle orme mostruose
nella neve e della misteriosa morte di Aralar, quello fu il più bel Tinsi Garpen
Silal ad Arethyan da parecchi anni a quella parte.
Il paese era coperto di neve, ma il sole continuò a
splendere per parecchi giorni, come a dire che quella era proprio la sua festa,
quella in cui dimostrava che le tenebre non potevano vincerlo, e che lui, o
meglio lei, risorgeva sempre.
Tutto rimase imbiancato per giorni e giorni sotto la luce del breve sole
solstiziale, e la notte le stelle erano fulgentissime, come mai era accaduto
d’inverno.
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