sabato 29 ottobre 2016

"I FIORI DELL'IGNOTO" di Pietro Trevisan: 234° pagina.


Velthur si bloccò, meditando di passare per il bosco, per evitare la bestia. Certo, se per caso c’erano anche i suoi compagni, allora aveva poche probabilità di fuggire.

Cominciò ad arretrare lentamente. La gatta rimase immobile a guardarlo con i suoi grandi occhi verdazzurri, il cui colore risaltava enormemente perché le pupille, per la luce del mattino, erano strettissime. Erano come due dischi di turchese, bellissimi e ammalianti. Quasi ipnotici.

Poi la gatta miagolò. Un miagolìo acuto, fortissimo, strepitante.

Non era un verso di rabbia o di minaccia, sembrava piuttosto un urlo di richiesta di aiuto, un pianto di disperazione. E infatti proseguì, un miagolìo dopo l’altro, uno più angoscioso dell’altro.

Quei miagolìi non fecero che spaventare ulteriormente Velthur, i cui nervi, se non avevano ceduto prima, era solo per un miracolo. Giusto quello che gli serviva per crollare. Cominciò a urlare anche lui contro la gatta.

«Il tuo padrone è morto, e io non posso fare niente per te. Non è stata colpa mia, lo capisci? Ho dovuto farlo, o avrebbe scatenato su di noi le forze che hanno inghiottito lui. Non è stata colpa mia, lo capisci?».

Ma la gatta continuava a urlare, disperatamente. Lo guardava con i suoi occhi brillanti, e lo chiamava, ininterrottamente.

«Vattene via, maledetta. Lasciami andare, torna nel tuo regno, torna sulle montagne con i tuoi simili, non c’è più niente per voi qui!».

E continuava a indietreggiare, e a quel punto la gatta cominciò ad avvicinarsi a lui, ma non lo raggiunse.

Si fermò nella neve, sempre sul ciglio del sentiero, e continuando a miagolare disperatamente, cominciò a scavare nella neve, come se cercasse qualcosa, come un cane scava la terra per trovare un cadavere.

E poi lo tirò fuori. Un giglio rosso, che chissà come era spuntato sotto la neve, proprio all’inizio dell’inverno. Dopo averlo dissepolto, lei guardò di nuovo il dottore, continuando a chiamarlo.

Solo allora Velthur capì cosa cercava di dirgli Ashtair.

Non era finita. Aralar era morto, ma i Fiori dell’Ignoto no, continuavano a vivere, a crescere, persino sotto la neve. E l’Ignoto sarebbe tornato.

Ashtair continuava a urlare, e urlare, e allora avvenne quella che forse era l’ultima visione terrificante. I suoi occhi cambiarono colore, divennero neri. Neri come quelli delle Fate, e le piccole pupille da nere divennero luminose, ma non del bagliore dorato degli occhi delle Fate, bensì di un intensa luce verde-azzurra, come invece lo erano prima le sue iridi. Le sue pupille mandarono un bagliore sfolgorante, come se fossero due stelle, di un fulgore che quasi ipnotizzò il dottore, il quale finalmente si decise a fuggire attraverso il bosco urlando, con i miagolii di Ashtair che continuavano imperterriti, disperati.

Quel pianto miagolii senza fine, Velthur non avrebbe più potuto dimentic dimenticarlo per il resto della sua vita vissuto, come una perenne accusa per l’atto che aveva inconsapevolmente commesso e che l’aveva messo di fronte a un orrore che superava ogni sua immaginazione.

Per sempre.





CAP. XX: IL BENEVOLO OBLIO





A parte lo strano e inquietante caso delle orme mostruose nella neve e della misteriosa morte di Aralar, quello fu il più bel Tinsi Garpen Silal ad Arethyan da parecchi anni a quella parte.

Il paese era coperto di neve, ma il sole continuò a splendere per parecchi giorni, come a dire che quella era proprio la sua festa, quella in cui dimostrava che le tenebre non potevano vincerlo, e che lui, o meglio lei, risorgeva sempre.
Tutto rimase imbiancato per giorni e giorni sotto la luce del breve sole solstiziale, e la notte le stelle erano fulgentissime, come mai era accaduto d’inverno. La Via Lattea pareva particolarmente bianca

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