domenica 14 febbraio 2016

"I FIORI DELL'IGNOTO" di Pietro Trevisan: 35° pagina.


contro un nemico invisibile, rizzando il pelo. Ma questi comportamenti, si sa, non erano affatto rari da parte loro, e molti non ci fecero caso.

La cosa sarebbe stata dimenticata presto, se il figlio maggiore degli Eryadhin non avesse cominciato ad essere ossessionato dal ricordo della bestia che aveva cercato invano di colpire.

Diceva di vederla in sogno ogni notte, che popolava innumerevoli incubi che lo tormentavano, fino a quando cominciò a vederla anche di giorno.

Ma la vedeva solo lui. Urlava di scorgerla vagare nei prati e nei boschi, ma quando la indicava, nessuno riusciva a vederla.

Finché impazzì completamente, e per liberarsi da quella ossessione, si suicidò annegandosi nel lago.

Ma quando fu ritrovato il suo corpo che galleggiava sulle acque, qualcuno disse che era stato lo spirito del cervo bianco, ad ucciderlo, o ad attirarlo nel lago con un incantesimo.

Dopo questo avvenimento, la Valle dei Gigli cominciò a conquistarsi una pessima fama nella regione.

Nelle valli vicine, da tempo si erano diffuse un sacco di leggende, nate dall’ingigantimento dei fatti da parte del folklore popolare, a tal punto che ormai erano diventati indistinguibili dalle pure e semplici chiacchiere.

Uno storico locale, il segretario della Shepen della Valle, aveva scritto tutti gli avvenimenti misteriosi della Valle dei Gigli, e sui suoi scritti si sarebbero basati anche tutti gli altri libri che avrebbero parlato del mistero di quel luogo, compreso il libro di Perun Oyarsun, che Velthur teneva in mano in quel momento.

Comunque, l’episodio dello strano cervo bianco sembrò segnare l’inizio di un’isteria collettiva. Si moltiplicarono gli avvistamenti di luci scarlatte nella notte nei boschi e sulle cime, e molti altri raccontavano di aver visto anche loro il misterioso cervo bianco dalle corna e dagli zoccoli scarlatti sia di giorno che di notte, sia nei boschi che nei prati, e molti dicevano che aveva “occhi che splendevano come stelle rosse”.

In quel periodo, arrivarono alcuni emigranti che presero a lavorare come minatori nella locale miniera d’argento, e uno di loro era un Teudan, un uomo delle tribù nordiche che vivevano oltre la grande catena ad arco delle Montagne Albine ai confini settentrionali del Veltyan.

I Teudanna, alti e selvaggi uomini dai capelli rossi e dagli occhi verdi, erano notoriamente un popolo pieno di paurose superstizioni e di spaventose e feroci leggende che popolavano il loro folklore di creature da incubo e da terrori senza nome, che funestavano la loro immaginazione primitiva, riempiendoli di paure oscure.

Il terrore della stregoneria li accompagnava sempre, e quando quell’uomo, ascoltando la sera i racconti della valle assieme ai suoi compagni di lavoro, venne a sapere la storia del cervo bianco, si impaurì enormemente. Era un uomo enorme e massiccio, con il fisico di un orso e un volto minaccioso che incuteva timore a chiunque, ma in quel momento sembrò spaventarsi come un bambino.

Il giorno dopo decise di andarsene, senza neanche ritirare la paga dell’ultimo mese. I suoi compagni cercarono di fermarlo, ma lui disse che avrebbe preferito fuggire nudo e disarmato dalla valle, piuttosto che rimanere là un’ora di più.

Chiedendogli perché se ne andasse, rispose solo che aveva troppa paura per parlarne, e che l’unica cosa che poteva dire era che la gente della Valle dei Gigli avrebbe dovuto abbandonare le loro case in massa ed emigrare altrove, perché avrebbero potuto andare incontro a un destino peggiore della morte.

Nessuno riuscì a fargli dire di più, ma un altro minatore, che conosceva qualcosa delle tradizioni dei Teudanna, disse che nel Grande Nord esistevano strane leggende di creature, animali leggendari, bianchi e rossi, che erano i messaggeri del mondo ultraterreno, e che la loro comparsa annunciava l’apertura delle porte invisibili del Regno delle Nebbie, che per i nordici era il regno dei morti e delle oscure divinità dell’oltretomba.

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