Lui fece un gesto di rabbiosa ribellione, ma se ne andò
dicendole solo che era una pazza e che non voleva più saperne di lei. Sapevano
entrambi che non era affatto vero.
Il giorno dopo, nessuno avrebbe ancora pensato che quella
festa di Tinsi Kerris aveva avuto qualcosa di diverso dalle altre, non ancora.
La gente di Arethyan avrebbe cominciato a pensarlo molto tempo dopo, in seguito
ad eventi molto più strani e paurosi.
CAPITOLO IV: MISTERI ANTICHI
Il giorno dopo la
festa di Tinsi Kerris venne un grande temporale, violentissimo, che rinfrescò
alquanto l’aria, ma che fece parecchi danni. Una tromba d’aria divelse diversi
tetti, soprattutto sulle stalle e sulle case dei più poveri, dai tetti meno
robusti. Alcune vie del villaggio si ritrovarono allagate, l’acqua penetrò in
alcune cantine, rischiando di rovinare cibi e bevande conservate dentro. Un
grosso noce fu spezzato dalla tromba d’aria, un pioppo invece prese fuoco per
un fulmine, proprio alla fine del temporale.
I testimoni dissero che c’era qualcosa di strano in quel
fulmine: cadde quando ormai la tromba d’aria e l’acquazzone si erano sfogati e
già all’orizzonte era comparso un bellissimo arcobaleno pieno e brillante,
mentre il sole occhieggiava fra i cumuli neri. Ed era un fulmine unico, non si
sentivano più tuoni, né lampeggiare neanche in lontananza, eppure si era
trattato di un fulmine potentissimo, il cui tuono aveva letteralmente infranto
i vetri delle case più vicine.
Alcuni dissero che doveva trattarsi di un segno divino,
forse Kerris, la Dea
delle Messi, aveva avuto qualcosa da ridire sulla sua festa.
I due sacerdoti principali del villaggio, marito e moglie,
rassicurarono i loro compaesani dicendo che, se Kerris aveva voluto mandare un
messaggio, non era di risentimento, perché tutti i riti erano stati svolti
secondo il canone tradizionale.
La sera del giorno dopo il temporale, Prukhu si presentò
alla porta del dottor Velthur Laran. Li legava un’amicizia di lunga data,
un’amicizia in parte carica di una sorta di complicità fra due personaggi che
non piacevano alle autorità del paese.
La signora Mendibur lo fece entrare nello studio del
dottore, dove stava leggendo come al solito uno dei suoi misteriosi libri di
farmacia alchemica.
Il vecchio Sileno gli apparve con il suo largo cappellaccio
nero in testa, e un mantello di sacco grigio sulle spalle. Rifiutò di
toglierseli perché diceva che non sarebbe rimasto se non pochi minuti, e che
doveva andarsene al più presto. Gli ardenti occhi gialli brillavano di un
riflesso rosso rame da sotto la tesa del cappello, e l’insieme del mantello
grigio e del suo pelo altrettanto grigio lo rendevano una figura inquietante.
«Sono venuto a salutarti, Velthur. Me ne devo andare stasera
stessa».
«Andare? E quando tornerai?».
«Forse non ci vedremo mai più, amico mio».
Seguirono alcuni istanti di gelido silenzio. Velthur lo
guardava per cercare di leggerne i tratti e lo sguardo, ma i suoi occhi di
brace erano illeggibili sotto le sopracciglia cespugliose.
«Cosa è successo? In che guaio ti sei cacciato? Hai dato
fastidio a qualcuno? La tua padrona, o qualche altro nobile e potente
sacerdote? O qualche famiglia di ricchi contadini?».
«No, niente del genere. Qualcosa di molto più grave. Sei
venuto al falò del villaggio, la sera di Tinsi Kerris? Non mi sembra di averti
visto….».
«No, non ci sono venuto. Il nipotino di Artheni ha avuto
delle violente coliche all’intestino, ho dovuto visitarlo, e dopo mi sono
sentito troppo stanco per venire alla festa. Inconvenienti del mestiere.
Perché?»
«Ho fatto qualcosa che proprio non dovevo fare, durante la festa…. un
grave errore. Io non ricordo niente, ma mi hanno raccontato cosa ho fatto dopo
essere caduto a terra, completamente ubriaco.
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