venerdì 2 dicembre 2016

"I FIORI DELL'IGNOTO" di Pietro Trevisan: 263° pagina.


Invece, il sacerdote-mostro si piantò il coltello nel petto, fino all’elsa, e crollò senza un grido sull’altare. D’altra parte, non aveva una bocca per urlare. Uno schizzo di liquido biancastro uscì dal suo petto prima di crollare sulla pietra.

Per Arnith fu abbastanza.

Scappò nei campi, correndo a perdifiato, inseguito dalle urla dei sacerdoti, che però non sembravano correre tanto forte. Poi il malessere e la paura ebbero la meglio su di lui, e cadde svenuto in mezzo a un campo.

Lo ritrovarono il mattino dopo, in mezzo al suo vomito e ai suoi escrementi, quasi morto di freddo.

I proprietari del campo l’avevano portato a casa loro, dove l’avevano ripulito e messo in un letto, poi uno di loro era andato a chiamare il medico.

Velthur non trovò nulla fuori posto, a parte i segni di assideramento. Chiese ad Arnith come mai fosse finito in mezzo al campo dopo essere uscito mezzo ubriaco dal Kran Belz.

«Ho visto delle cose orribili, cose spaventose, poco dopo essere uscito dal Kran Belz. Cose che si vedono solo con gli incantesimi delle Fate. Credo che mi abbiano dato del vino fatato, e perciò ho incontrato quegli esseri!».

Velthur si fece raccontare quello che aveva visto Arnith, e alla fine sospirò.

«Qualsiasi cosa sia stata, non è colpa del vino. Abbiamo bevuto tutti dalla stessa brocca, se ben ricordi, ieri sera. Tutti e cinque. Ma a noi non è successo niente. Parecchio brilli, senz’altro, ma non abbiamo visto né sentito niente di strano».

«Vuoi dire che sono diventato matto?».

«No, forse no. Da come lo racconti, non sembra un’allucinazione. Mi hai detto che hai visto e sentito tutto come se fosse reale, ne hai parlato descrivendo i particolari molto bene, e con molta calma.

I matti che soffrono di allucinazioni non sono capaci di fare questo, sono sempre un poco confusi nel dire le cose. Bisognerebbe sapere se qualcuno ti ha visto ieri sera, dopo essere uscito dall’osteria».

«Quello che mi ha spaventato più di tutto, era che non c’era nessuno. Per le vie, intendo. Il villaggio sembrava deserto, abbandonato. Molte case avevano le porte e le finestre sbarrate, molte altre non avevano le luci al loro interno. Molte vie non avevano neanche le lampade perenni ad illuminarle. Era come se mi trovassi in un altro luogo. Eppure c’erano anche tante cose che conoscevo. Quella strana Osteria dell’Occhio Rosso era nella stessa via dell’Osteria del Gatto Nero. Uguale identica. Solo che era diversa l’insegna…. per me è stato un incantesimo delle Fate o di qualche strega che mi vuole male. In qualche modo, senza che me ne potessi accorgere, mi hanno messo del vino drogato nel calice, solo nel mio, con qualche trucco incantato, e così ho avuto visioni di qualche regno demoniaco, forse di un luogo al limite dell’aldilà, dove ho visto degli spiriti tormentati, forse spiriti di sacerdoti malvagi, che hanno trasgredito i loro compiti».

Velthur non replicò niente. Sapeva che era inutile.

Gli etarna, la gente del popolo, non concepiva che un’allucinazione potesse essere solo un’illusione della mente, a meno che non si fosse completamente matti. Se lo era, era l’illusione creata da un incantesimo malevolo. Per Arnith, quello che aveva vissuto doveva essere o un viaggio in un regno ignoto, o una visione demoniaca. Non poteva essere nient’altro. E non sarebbe stato nient’altro neanche per nessun altro contadino della zona, una volta che avesse cominciato a raccontare a tutti la sua esperienza. E questo avrebbe riacceso le dicerie su Arethyan che correvano da sette anni e che col tempo si erano un po’ acquietate.

«Puoi farmi un favore, Arnith? Cerca di non parlare a nessuno di quello che hai visto. Penso che sia meglio».

«Eh, lo so perché non vuole che ne parli, dottore. Voi temete che stiano di nuovo per succedere tutte quelle cose strane che sono successe sette anni fa…. ma sa che faccio? Vado da una strega e mi faccio togliere il maleficio. Questa è la maledizione che mi perseguita per aver partecipato al belk tanti anni fa».

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