«I servi e gli schiavi chiacchierano. Qualcuno di loro sta
già cominciando a dire che la locanda è infestata…. un bel guaio per noi. Chi
vuole essere ospitato in una locanda che ha la fama di essere infestata dagli
spiriti?».
«Quel che è peggio, è che forse non siete gli unici a
conquistarvi questa fama. Già il nostro paese non ha una bella nomèa, in questo
senso….».
«Lo so. Stiamo per tornare alla stessa situazione di sette
anni fa, vero?».
«Avrei voluto trovare un pretesto per dire che non è vero,
ma voi non siete la prima che me l’ha detto».
«Dobbiamo chiamare i gendarmi? Oppure un sacerdote che
esorcizzi i demoni e gli spiriti della casa?».
«Fate come credete, è casa vostra e io posso consigliarvi
solo per la salute di vostra nipote. E spero di non dover essere chiamato qui per
altre persone ridotte nello stesso modo».
Uscendo dalla locanda, Velthur si disse che con tutta
probabilità doveva recarsi una seconda volta alle Colline di Leukun.
Senz’altro, doveva parlare con Prukhu e con Menkhu.
Avrebbe dovuto parlarne anche con Azyel, ma non lo vedeva
ormai da anni. Da quando era cominciata quella che avevano chiamato la Tregua
dell’Ignoto, le sue visite si erano diradate progressivamente, fino a sparire.
L’unico che lo vedeva con una certa frequenza, era solo Erkan, ormai interamente
integrato nella confraternita delle Fate e dei loro amici.
Probabilmente, non avrebbe neanche dovuto farlo chiamare da
Erkan. Se la Tregua dell’Ignoto era davvero finita, allora si sarebbe fatto
vivo da solo.
La mattina dopo, il dottore tornò alla locanda dei Kalatur e
riuscì a parlare con la ragazza, che era ancora visibilmente scossa, ma che
riuscì a descrivere ciò che le era successo. Con una certa reticenza, perché
aveva paura di essere considerata pazza, da tanto era assurdo quello che aveva
visto e sentito.
Lei era convinta di avere visto uno spirito, o forse anche
due, e che lo specchio della camera fosse stregato.
Quell’idea non era solo sua, perché fu rimosso e sostituito
con un altro.
Il dottore chiese se poteva tenerlo lui qualche tempo, per esaminarlo,
o per farlo esaminare da qualche maestro alchimista. Gli specchi, si sapeva,
erano potenti strumenti alchemici, e potevano fare cose sconcertanti, in mano
al maestro alchimista più dotato.
Gli portarono lo specchio verso sera, mentre in un altro
posto ancora stava per accadere un altro fatto sconcertante ed inspiegabile.
C’era una villa patrizia anch’essa lungo il fiume come la
fattoria-locanda dei Kalatur, ma molto fuori del paese, sulla strada per
Sartiuna, in mezzo a un parco di betulle. Era una villa molto antica e la
famiglia di athumna che la possedeva
era ormai decaduta, a tal punto che non poteva più fare restaurare la dimora,
che diveniva di anno in anno sempre più fatiscente.
La famiglia Vipinas
era ormai costituita solo dalla vecchia matriarca, da sua sorella minore e da
un paio di nipoti, poiché i figli delle due sorelle e i nipoti più grandi
avevano lasciato la casa per andare a lavorare in città, e poter mandare
qualche pentacolo a casa.
A fare compagnia alle due anziane patrizie e ai loro nipoti
c’erano anche un paio di schiavi, ex-prigionieri di guerra nordici, perché nel
Veltyan tutti i marishna, gli schiavi,
erano o trasgressori della legge o prigionieri di guerra, dato che per legge
nessun cittadino onesto poteva essere ridotto in schiavitù.
I due schiavi erano un uomo e una donna catturati durante
uno degli immancabili scontri con i predoni nordici ai confini settentrionali
della catena delle Montagne Albine, ed erano appartenuti al popolo dei Gaelna,
presso i quali le donne guerriere erano una categoria piuttosto diffusa.
Da tanti anni i due schiavi avevano assorbito la lingua, e
in parte anche gli usi e i costumi dei Thyrsenna, e dimostravano una apparente
devozione alle loro padrone. Avevano
imparato ad apprezzare la vita pacifica e comoda dei Thyrsenna e speravano che
un giorno gli venisse concessa l’affrancamento dalla schiavitù, come era
capitato a tanti altri schiavi stranieri, che si erano poi integrati
pacificamente nella società thyrseniakh.
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