«Credo di sì, mia signora. Io non l’ho visto scendere».
Kernon fece l’errore di suggerire che il ragazzo potesse
avere visto degli spiriti. E mal gliene incolse.
«Sono stanco delle tue storie da selvaggio nordico! Hai una
pessima influenza sui miei nipoti e in particolar modo su Thefren! Ora ti dico
per l’ultima volta: se non la pianti di raccontare storie paurose ai miei eredi
ti vendo a qualche miniera di argento e così finisci di fare la bella vita in
casa mia!».
Kernon non era un uomo coraggioso. E anche se era
superstizioso come tutti quelli della sua gente primitiva, sapeva anche essere
furbo.
Si gettò ai piedi della matriarca supplicando di non venire
venduto a una miniera dove sarebbe morto di fatica e di stenti, o avvelenato
dai miasmi sotterranei o schiacciato da un crollo. La supplicò che, se proprio
voleva mandarlo via, lo vendesse a un contadino della zona, dove avrebbe potuto
respirare l’aria libera e vedere la luce del dolce sole del Regno Aureo.
Una scena melodrammatica degna di un servo spaventato da
quello che era un semplice spauracchio. Ovviamente la matriarca non aveva
nessuna intenzione di venderlo, ma solo di spaventarlo. E a dire il vero Kernon
lo sapeva, ma sapeva che tornava a suo favore fingersi spaventato.
«Rialzati, uomo! Dov’è l’eredità dei tuoi antenati guerrieri
di cui ti vanti? Se non vuoi uscire da questa casa, ripara al danno che hai
fatto. Fammi strada sulle scale e andiamo a vedere cosa ha spaventato mio
nipote, per colpa delle tue storie! Andiamo a riprendere quella bestia che
forse, facendo cadere qualche oggetto, ha spaventato Thefren».
Kernon si rialzò e prese una lampada perenne sopra un baule
nel corridoio ai piedi delle scale, e salì curvo, fingendosi ancora spaventato
dall’ira della padrona.
Il corridoio era immerso nel buio più totale, dato che le
lampade perenni erano state tolte molti anni fa, non servendo più a nulla.
C’era solo una sottile linea di luce in fondo, ai piedi
della parete dove il corridoio finiva, per dividersi in due altri tratti, verso
due stanze una opposta all’altra.
Sembrava che una pallida luce verdastra fosse accesa dietro
la porta in fondo al corridoio.
Fu allora che lo schiavo e la matriarca si arrestarono.
Perché sapevano entrambi che in fondo al corridoio non c’era mai stata nessuna
porta.
«Mia signora, vedete anche voi quello che vedo io?».
«Sì, lo vedo. Va avanti. Andiamo fino in fondo al
corridoio».
Kernon cominciò a tremare e a scuotere la testa.
«Torniamo indietro, mia signora. Qualsiasi cosa succeda, non
dobbiamo avvicinarci a quella porta!».
«Quella porta non può esistere! Deve essere un imbroglio, un
trucco, un pessimo scherzo di qualcuno che è entrato di nascosto in casa mia!
Quella porta è finta! Andiamo avanti!».
«No! Piuttosto la morte! Vendetemi al primo che capita,
anche al proprietario di una miniera, ma non fatemi avvicinare a quella porta.
È una porta al Regno delle Fate! Non dobbiamo avvicinarci e tanto meno
attraversarla! Costi quel che costi! Torniamo indietro! E permettetemi di
murare il corridoio!».
«Sei pazzo! Sei un lurido selvaggio superstizioso che ha
portato le sue menzogne in casa mia!».
La matriarca alzò il suo bastone per darlo sulla schiena di
Kernon, il quale si schermì mettendo le mani sulla testa, ma non si scostò.
Non era mai stato il più coraggioso dei guerrieri, e infatti
non aveva avuto il coraggio di suicidarsi quando era stato catturato dai
soldati dei Thyrsenna, ma non era neanche il più pauroso.
Le sue credenze tribali gli dicevano che l’unica cosa per
salvarsi dalla Porta del Regno delle Fate era semplicemente murarla. Non serviva
fuggire da essa, questo glielo avevano insegnato bene, le credenze del suo
popolo.
Anche se fossero scappati tutti dalla villa, il malevolo incantesimo del
popolo fatato li avrebbe inseguiti, padroni e schiavi, fino ai confini del
mondo degli Uomini, perché quella porta era
il
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