Si voltò di nuovo, sentendosi impazzire di terrore e
confusione. La piccola sfera pulsante era sempre là, fluttuante, leggermente
ondeggiante nell’aria.
Si voltò ancora una volta verso lo specchio, e questa volta
vide qualcosa di diverso dalle due volte precedenti. L’ombra nera rimaneva
immobile, ma era invece la stessa immagine di Alasni che si era spostata e non
seguiva gli spostamenti della sua proprietaria.
Alasni si stava guardando nello specchio da dietro. Come se
la sua immagine fosse rimasta impietrita dalla visione dell’ombra nera, e fosse
rimasta là. Era come se si guardasse le spalle con un secondo specchio.
Vedeva la lunga treccia che le scendeva sulla schiena, la
propria nuca, le proprie spalle tremanti.
Poi successe l’ultima delle assurdità che gli mostrava lo
specchio.
La sua immagine si voltò, e le urlò contro: «Vattene via! Subito!».
E il peggio era che gli occhi della sua immagine non erano i
suoi, ma quelli di un’altra. Erano neri, completamente neri come quelli di una
Fata, con due bianche pupille brillanti, dello stesso colore degli occhi
dell’essere d’ombra.
A quel punto Alasni lanciò un urlò spaventoso e fuggì dalla
camera, senza neanche voltarsi a guardare se la piccola sfera di luce fosse
ancora là, fluttuante di fronte alla parete.
Continuò a gridare mentre fuggiva per i corridoi del primo
piano, e lungo le scale, riempiendo l’intera locanda delle sue urla.
Per parecchie ore non fu in grado di raccontare cosa le
fosse successo, in preda allo shock continuava a piangere e lanciare frasi
smozzicate e confuse e anche lì si dovette chiamare il medico.
Ma mentre parenti e servitù cercavano di calmarla, una delle
zie salì verso la camera, decisa a capire cosa potesse essere successo.
All’inizio non trovò niente, poi si accorse di certe strane
impronte sullo specchio. Sembrava che una grande mano si fosse appoggiata sullo
specchio, una mano dalla forma stranissima, che non sembrava neanche una mano
umana, ma forse la zampata di un animale sconosciuto.
La donna in seguito ordinò che non si toccasse lo specchio,
almeno per il momento, e che nessun altro entrasse in quella camera.
Quando arrivò il dottor Velthur, già presagiva cosa avrebbe
trovato. Pensava di sentire ancora una volta una storia di neri demoni alati
con gli occhi rossi che spiavano dalla finestra, o che volavano sopra i tetti.
O che magari avrebbe sentito una storia simile a quella che gli aveva narrato
quella mattina il povero Arnith.
Dovette constatare invece che le cose si stavano mettendo
più o meno come si erano messe nel Giorno del Prodigio Scarlatto, solo anche
peggio. Ognuno vedeva e sentiva cose diverse dagli altri, ma tutti ugualmente
vedevano qualcosa di mostruoso, assurdo e innaturale.
L’unica differenza sostanziale era che mentre in quella
mattina di sette anni fa si era trattato solo di visioni, adesso le cose
sembravano avere delle conseguenze fisiche.
Dopo aver visitato la ragazza, e averle dato una potente
droga sonnifera, la zia di Alasni lo accompagnò nella camera del grande
specchio, e gli mostrò l’impronta.
«Forse è stata vittima di un brutto scherzo, dottore, ma a
me sembra l’impronta di qualcosa in carne ed ossa… vedete le impronte delle
dita, le pieghe della pelle? Guardate che disegno complesso… chi saprebbe fare
uno scherzo così? Ma non sono pieghe… umane. Voi avete mai visto niente del
genere?».
«No, mai. Ed effettivamente sembra un’impronta vera, anche
se sconosciuta. Siete riusciti a capire cosa avrebbe visto, vostra nipote?».
«Da quando l’abbiamo trovata in quello stato, non fa altro
che ripetere “l’ombra nera nello specchio” e “la luce rossa sulla parete” e “lo
specchio mi ha parlato” e altre cose prive di senso. Tornerete domani a
trovarla? Forse vi sapremo dire di più, o magari lei stessa sarà in grado di
dire qualcosa di sensato».
«Certo che verrò! Voglio chiarire questa cosa ad ogni
costo…. e vi sarei grato se non parlaste di questo con anima viva».
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